"La luce della fede in Gesù

illumina anche il cammino

di tutti coloro che cercano Dio,

e offre il contributo proprio del cristianesimo

nel dialogo con i seguaci delle diverse religioni"

- Lumen Fidei 35 -

  

"Finis ultimo non est unio animae cum aliquo alio, sed separatio (viyoga) eius ab omnibus aliis"

 

"Il fine ultimo non consiste nell'unione dell'anima con qualche altro essere, ma nella separazione [viyoga] da ogni altro essere".

  

 - C. B. Papali ocd, Hinduismus (I) -

  

3.   P S I C O T E C N I C H E 

  

     1.     psicotecniche di introspezione

 

Il cristiano si può giustamente domandare se e in quale misura, nel suo cammino di crescita nel rapporto di amore con Dio, possa adottare le tecniche meditative dell’Estremo Oriente. La risposta è già contenuta nel concetto di natura della meditazione.

Tuttavia, per essere più espliciti, riportiamo al riguardo alcune espressioni chiarificatrici del Card. Ratzinger, ora Benedetto XVI, Papa emerito: "Può essere accolto tutto e solo quello che si lascia armonizzare con la struttura fondamentale della preghiera cristiana: con il suo carattere personale e storico… Ciò significa prima di tutto una limitazione di ogni psicotecnica: nessuna tecnica può sostituire lo slancio della libertà che si fa incontro con Dio. Le tecniche si possono assumere nella misura in cui sono di aiuto all’itinerario della libertà qui descritto… Attraverso determinate tecniche si possono produrre sensazioni di pace e di distensione o anche fenomeni di luce e di calore, che però non hanno niente a che fare con l’incontro con Dio, con la vera unione mistica".

 

Alla luce di queste parole desideriamo ora porre l’attenzione sui tre momenti specifici della prassi meditativa indiana, per coglierne aspetti positivi sul piano psicotecnico, ma anche i pericoli e la necessità di salde strutture psichiche. 


2. iter di graduale separazione (viyoga)

 

Già sono stati ampiamente esposti nei dettagli gli aspetti psicotecnici nel corpo dottrinale centrale della nostra indagine cristiana sulla Spiritualità indiana.

 

Sintetizzando e richiamando brevemente i tre momenti specifici della prassi meditativa indiana, abbiamo il seguente movimento con “motum obliquum”:

 

(a) fase prima: fissazione mentale

(b) fase media: introspezione mentale

(a’) fase ultima: denudazione mentale

 

Con le dovute modifiche, relative alle diverse scuole indiane, questa impostazione, con “motum obliquum”, è sostanzialmente comune all’Induismo e al Buddhismo, incluso lo Zen. Questa prassi meditativa arresta le modificazioni mentali e conduce all’identificazione âtmanBrahman/Nirvana.

 

 

La successione del cammino psicotecnico di forma yogica ha come scopo ultimo la separazione esistenziale (viyoga), come ricordato da Papali: "finis non est unio animae cum aliquo alio, sed separatio (viyoga) eius ab omnibbus aliis". Non può e non va quindi confusa con la meditazione cristiana che è dinamica teologale, attenzione amorosa con un 'Altro' che si è rivelato nella storia biblica.

 

 

- per l'Induismo

 

Nella prassi  psicotecnica  della concezione  esistenziale indiana (karman-samsâra-mâyâ), per conquistare la liberazione (moksa-mukti), lo yogin indù,  e  lui solo, senza la presenza di un altro: 

 

  • distrugge le ‘impressioni’ (samskâra) di tutte le precedenti funzioni mentali rimaste nella memoria nel loro stato di germe (bija)
  • arresta le forze karmiche (cioè gli effetti delle azioni precedenti), perciò stesso, sfugge al karma-samsâra
  • crea il vuoto (śūnya) nella mente
  •  realizza la separazione esistenziale, viyoga
  • entra in isolamento splendido, in  kâivalya, senza riferimento a un ‘Altro’.

 

In questo iter dell’esperienza mistica naturale, l’anima umana, scrive Papali, è fine a se stessa: "anima humana est finis sui ipsius".

 

Patañjali definisce il kâivalya il riposare dello spirito (purusa) in se stesso quale unità solitaria, isolata: «Si ha kâivalya quando la coscienza è fondata sulla propria essenza». Papali spiega: "kâivalya seu simplex esse animæ" (Kâivalya o semplice essere dell’anima).

 

In questo stato lo yogin diviene un jîvanmukta, un liberato in vita. Inkâivalya l’âtman, quale unità isolata, si identifica con la suprema assolutezza del Brahman Nirguna, è allietato dalla sua costante fruizione e ha l’esperienza del mahâ-vâkya che era stato prescelto per la meditazione, ad esempio: «aham Brahma-asmi»: "Io sono Brahman".

 

     

- per il Buddhismo

 

Stesso scopo, con nomi diversi, persegue il Buddhismo. Infatti, nella quinta samapâtti, la nona della serie dei jhâna, chiamata nirodha-samâpatti, il bhiksu:

 

  • distrugge l’ignoranza (avidyâ)
  • arresta-frena-sopprime (Patañjali: nirodhah; Papali: cohibitio) la coscienza (viññâna) e la sensazione (vedanâ) e, poiché le idee presenti in lui svaniscono senza che altre nascano, non pensa (samjñâ) e non forma (rûpa)
  • inibisce le impressioni o pulsioni inconsce (samskâra)
  • soffoca la sete di desiderio malsano (trsnâ)
  • estingue afflizione, pianto, dolore, pena e angoscia (soka-parideva-dukkha-domanass’-upâyasa).

 

Con il superamento dell’ignoranza (avidyâ), primo anello dei Dodici nessi causali (pratîtya-samutpâda), e la ‘rottura’ dei cinque aggregati (pañcâ-skanda), la restante catena viene sfilacciata e il bhiksu, secondo il Dhamma buddhista, esce dalla legge del ‘girovagare’ (karma-samsâra) e si stabilisce nel samditthikanibbâna, cioè il nirvâna visibile che si realizza in questa terra.

 

Inoltre, con la fase di arresto-freno (nirodha) della coscienza (viññânabuddhista si ha la progressiva estinzione – a vasto raggio – dei cinque aggregati (pañcâ-skanda) che compongono l’io empirico (anattâ), il non-io, il quale è impermanente (anicca) e fonte di dolore (dukkha).

 

 

3. conclusione

 

L'iter della prassi meditativa yogica dell’Induismo e del Buddhismo è definita dal Ancilli come "lento lavoro di morte, un’arte di entrare viventi nella morte, che non è la morte evangelica per far posto a un Altro, ma una morte metafisica per separare dal corpo le attività dello spirito" (E. ANCILLI, La mistica e le mistiche, in La Mistica, fenomenologia e riflessione teologica, vol. II, Roma 1981).

 

Chi si affida a un simile lento lavoro di morte senza l’ausilio di un maestro, di un guru, e si accosta alle psicotecniche con mente torbida o ottusa (mûdha), inevitabilmente subirà gravi danni mentali di tipo patologico-psichiatrico: forme di manie, fissazioni, allucinazioni, schizofrenie, effetto, appunto, di psicotecniche assunte come "droghe mistiche". (E. SANGUINETI, Spiritualità e patologia, in AA.VV., La realizzazione spirituale dell'uomo. Atti del convegno interdisciplinare tenuto presso il dipartimento di medicina dell’Università di Pisa, Milano 1987).

 

Solo colui che ha acquisito una mente focalizzata (ekâgra) e domata (niruddha) è idoneo a queste tecniche di introspezione psicologica. "Gli uomini, scrive Acharuparambil, con una mente inquieta o torbida o distratta (sipta, mûdha, viksipta), devono disciplinare con assiduità la loro mente per acquisire un certo livello di concentrazione, perché siano in grado di sottomettersi allo yoga vero" (D. ACHARUPARAMBIL, Induismo. Vita e pensiero, Roma 1986) [*].

 

[*]

 D. ACHARUPARAMBILL, Induismo, vita e pensiero, Roma 1976.

 

 L'originalità di questo libro sta nel fatto che è stato scritto da un indiano appartenente alla famiglia cristiana dei carmelitani scalzi del Kerala e che noi abbiamo avuto come Docente di Induismo nel Pontificio Istituto di Spiritualità del Teresianum di Roma (Italia).

 

L'autore, Padre Daniel Acharuparambil, divenuto Arcivescovo di Verapoly, ha studiato e poi insegnato non soltanto nelle Facoltà Romane Cattoliche (Italia), ma ugualmente si è specializzato nell'ortodossia Braminica che è l'Università Indù di Benares (India).


La sua opera, "Induismo Vita e pensiero", sostiene le discrete intenzioni missionarie su una conoscenza solida dell'Induismo. La presentazione che ne è fatta è molto tradizionale, in questo senso segue scrupolosamente l'ordine cronologico: i Veda; la Bhagavad Gita, i Darśanas; il Tantrismo; l'Induismo moderno. In ciascuno di questi ambiti vi sono le sorgenti sanscrite alle quali l'autore in gran parte attinge. Ecco perchè Padre Daniel chiama il "pensiero" nel sottotitolo del suo libro.

Quanto all'aspetto "vita", consiste in un lungo esposto (un centinaio di pagine. più di un terzo dell'opera) della teoria braminica della trasmigrazione e del sistema dei samskaras (sul controllo della legge del karma) che dalla nascita alla morte ritmano la vita dell'indù.


Il testo, ormai esaurito, costituisce una importante introduzione al vasto orizzonte delle antiche tradizioni religiose dell'India.